Lavoro: una questione di democrazia

“Quattro euro lordi all’ora non sono un salario. Sono il costo di uno schiavo in una società premoderna. E ci dice quanto in basso sul piano inclinato del suo riconoscimento sociale sia scivolato il lavoro in questi anni.

Non si tratta di un caso limite (il caso di venti addetti di un call center in Provincia di Taranto costretti a lavorare in un sottoscala) e neppure di un caso isolato (l’Istat ha valutato intorno ai 4 milioni i lavoratori che portano a casa mensilmente 500 euro o meno).

Basterebbe frugare tra le pieghe della nostra società ulteriormente logorata dal coronavirus, ma già ampiamente vulnerata anche prima, per scoprire che in quella condizione lavora una moltitudine di persone, donne soprattutto, ma non solo, per le quali il lavoro, quale che sia, in qualunque condizione offerto, è un bene così indispensabile alla sopravvivenza da sacrificargli ogni altra cosa: diritti, salute, dignità.

Sono distribuite, queste figure, lungo i segmenti terminali delle lunghe catene della subfornitura alla cui origine stanno grandi corporations “d’eccellenza”, nei reticoli sommersi della gig economy, dell’economia dei lavoretti e del precariato, nei sottoscala del lavoro sommerso e dei diversi caporalati, nella galassia di un sistema di produzione che si è frammentato e scomposto riempiendosi di invisibili e di lingue mozzate, per le quali il rispetto di un contratto di lavoro è un lusso che non possono permettersi, e il silenzio di fronte a un sopruso un dovere la cui trasgressione è pagata cara.

Sono il prodotto di una storica sconfitta del lavoro che non è di oggi né di ieri. Che viene da lontano, fin dagli ultimi decenni del secolo scorso quando il rapporto tra denaro e lavoro, da sempre conflittuale. si ruppe e il primo sfondò rispetto al secondo, come ci ha mostrato nei suoi fondamentali testi Luciano Gallino.

Da allora, ci dicono recenti analisi, il monte salari ha perso una quindicina di punti percentuali rispetto ai profitti, nella composizione del Pil, ed è una cifra enorme: oltre 200 miliardi di euro che non vanno più a remunerare il lavoro, ma entrano nel circuito dell’accumulazione prevalentemente finanziaria. Le telefoniste di Crispiano stanno dentro quella feroce statistica.

Un amministratore delegato come quello per cui direttamente o indirettamente lavorano percepisce annualmente una remunerazione fissa di 1 milione e 400 mila euro, all’incirca. Oltre a una cifra oscillante tra i 700 mila e i 2,1 milioni legati ai risultati ottenuti, e una buona fetta di stock options.

E’ il mercato, si dirà. E’ una dura legge dell’economia. Senonché un livello così abissale di diseguaglianza non è solo questione economica. E neppure solo questione morale (che oggi non interessa più quasi a nessuno). E’ questione politica. Coinvolge il tema cruciale della democrazia.

La forma democratica presuppone, inevitabilmente, un certo grado di eguaglianza non solo formale tra i cittadini. O, se si preferisce, un limite strutturale al grado di diseguaglianza accettabile. Perché la parola abbia senso è necessario che nessuno sia così ricco da potersi permettere di comprare i voti degli altri. E che nessuno sia così povero da essere costretto a vendere il proprio voto. O il proprio corpo. O la propria vita.

Il caso di Crispiano ci dice che quella soglia è stata superata. Esso sta fuori dalla nostra Costituzione e dalla forma di governo che prevede. Come ne stanno fuori i mille altri casi simili.

Suturare quelle ferite, ridimensionare il tasso di diseguaglianza entro soglie compatibili con la vita democratica, non è solo un problema di politica sindacale. E’ una condizione di sopravvivenza della nostra democrazia”

di Marco Revelli

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